Cosa se ne fa veramente uno yogi del pranayama?
Il pranayama è di solito identificato come una serie di esercizi di respirazione che hanno lo scopo di aumentare la nostra consapevolezza del respiro e di come imparare a controllarlo. Lo ragione per cui lo si pratica attualmente è, nella maggior parte dei casi, quello di aumentare le nostre prestazioni respiratorie e l’efficienza di questo meccanismo fondamentale per la vita. In questo modo si ottiene un sensibile miglioramento dell’energia vitale, il prana appunto, allo scopo di preservare la salute, gestire alcuni disturbi psichici come ad esempio l’ansia o l’insonnia ed avere un certo controllo sulla mente per facilitare la meditazione, benché questa sia ormai una pratica rara nei corsi di yoga.
Quelli sopra citati sono dei propositi di tutto rispetto ed i risultati in tal senso sono garantiti, ma gli yogi autentici, coloro che dedicano la loro vita alla realizzazione spirituale e che non hanno molto interesse in un benessere psicofisico fine a se stesso, cosa cercano veramente nella pratica del pranayama? Per trovare una risposta a questa domanda bisogna, come da prassi nella tradizione indiana, consultare i testi.
Nei testi antichi della spiritualità indiana, dalle Upanishad ai Purana, si trovano frequenti riferimenti al pranayama e si menziona anche lo scopo ultimo per cui il sadhaka, ossia il praticante di yoga, deve dedicarsi a controllare il proprio respiro.
Un primo riferimento importante al pranayama si trova nel celebre Yogasutra di Patanajli dove viene esplicitamente inserito come uno degli otto passi per raggiungere l’illuminazione, perché grazie al controllo del respiro la mente si calma e dunque:
“Quando la mente è stabile e le sue fluttuazione si fermano, il veggente vede Sé stesso.”
(Yoga Sutra 1.2-1.3)
Nei testi di matrice vedica, una menzione rilevante all’importanza del dominio del respiro la si trova nella Svetasvatara Upanishad, tra le più importanti delle Upanishad vediche, dove è evidente la relazione tra il respiro e l’energia vitale, ossia il prana:
“Avendo perfettamente dominato le energie vitali qui (in questo corpo), colui il quale trattiene opportunamente l’azione, quando la sua energia vitale si è ridotta, dovrebbe esalare (il respiro) per mezzo del naso. Il saggio diligente dovrebbe mantenere sotto controllo la mente come (si controlla) un carro attaccato ad un cavallo irrequieto”
(Svetasvara Upanishad, II-9) *
Nella Bhagavad Gita, testo tra i più importanti della spiritualità indiana, dove viene indicata la via della Bhakti come la più elevata tra le vie dello yoga, si riconosce comunque al pranayama una funzione di rilievo benché in ultimo nel testo si indichi solo nella devozione e nell’abbandono al divino le condizioni per lo yogi di realizzarsi spiritualmente:
“Alcuni, inoltre, cercano l’estasi nel controllo del respiro e si esercitano a fondere il soffio espirato nel
soffio inspirato, e l’inverso; giungono così a sospendere ogni respirazione e a conoscere l’estasi.
Altri ancora, limitando il nutrimento, sacrificano il soffio espirato in sé stesso.”
(Bhagavad Gita 4,29)
“Chiudendosi agli oggetti esterni dei sensi, con lo sguardo fisso tra le sopracciglia, trattenendo nelle narici l’aria ascendente e quella discendente, controllando così i sensi, la mente e l’intelligenza, lo spiritualista si libera dal desiderio, dalla paura e dalla collera. Chi rimane sempre in questa condizione è certamente liberato.”
(Bhagavad Gita 5,27-28)
Nello Shrimad Bhagavatam, il Purana più elevato dove vengono raccontati i divini passatempi del Signore Krishna, si trova il vero scopo ultimo del vero yogi e della sua ricerca spirituale, ossia ritrovare la propria identità spirituale autentica e ricongiungersi definitivamente al Signore Supremo. Nella storia di Dhruva Maharaj, il giovane filgio di un re che decise di abbandonare la propria casa e ritirarsi nella foresta, raccontata nel quarto Canto di questo Purana, si narra di come egli sia giunto a stabilire un contatto divino anche grazie al controllo del respiro, in seguito ad una serie di altre privazioni ed austerità ma soprattutto alla meditazione:
“Nel quarto mese Dhruva Maharaj divenne completamente padrone della sua respirazione, inspirando soltanto ogni dodici giorni. In questo modo egli si stabilì definitivamente nell’adorazione di Dio, la Persona Suprema.
Nel quinto mese, Maharaj Dhruva, figlio del re, aveva controllato il respiro in modo così perfetto che poteva stare immobile su una sola gamba, come una colonna, e concentrare la mente sul Parabrahman.
Controllò completamente i sensi e i loro oggetti, e in questo modo fissò la mente sulla forma di Dio,
la Persona Suprema, senza la minima deviazione”
(Shrimad Bhagavatam, IV 8,76-78)**
La storia a si conclude a buon fine: dopo tante austerità e meditazione, il giovane ragazzo alla fine riesce ad incontrare il Signore Supremo.
Il pranayama è dunque pratica molto antica e preziosa che può donarci molto di più di un sano stato psicofisico ed essere un valido supporto allo scopo ultimo della nostra vita: la realizzazione di sé.
* Fonte: “Svetasvara Upanishad con il commento di Shankara” – ed. Asram Vidya
** Fonte: “Shrimad Bhagavatam” con il commento di A.C. Bhaktivedanta Swami, ed. BBT